
Da Il Primato Nazionale – Roma, 24 mag – Un fiume e una trincea nel destino, la vittoria e l’oblio come destinazione. Si potrebbe riassumere così la storia di quei soldati italiani, tra fanti, marinai, aviatori e artiglieri che, da quel fatale 24 maggio 1915, hanno combattuto per quattro lunghi anni una delle più terribili guerre dell’era moderna.
Con milioni di mobilitati e 600mila caduti, è stato altissimo il prezzo pagato da un’intera generazione per difendere i confini della nazione e permettere a Trento e Trieste di riabbracciare la madre patria. Un tributo di sangue che però, a più di un secolo di distanza da quegli eventi, non viene più omaggiato come meriterebbe.
Il globalismo senza confini
Già, perché il destino degli eroi che, dal 24 maggio fino a Vittorio Veneto, consacrarono con il loro sangue il suolo della nazione, non piace per nulla al clero globalista. Perché mai omaggiare chi difese o allargò i confini della patria, quando il verbo dominante, oggi, parla la neolingua no border?
Perché mai rendere onore a chi imbracciò le armi, se il massimo di mobilitazione che prevede adesso la società civile è un’apericena per Giulio Regeni o una manifestazione di mocciosi viziati per Greta Thunberg? Perché mai celebrare chi si oppose all’invasione dello straniero, quando ora l’invasione viene esaltata come giusta redenzione per i nostri (presunti) crimini passati?
Ecco, è evidente il motivo per cui l’esempio di quegli eroi mette in imbarazzo i santoni del globalismo etnocida. Perché li inchioda alla loro vacuità, alla loro bassezza morale, alla loro viltà, al loro odio rancoroso per tutto ciò che è alto, bello e nobile.
Il 24 maggio, data sacra all’Italia
E invece è proprio questa l’eredità che ci hanno lasciato i fanti del Piave, del Carso e di Vittorio Veneto: una nazione con frontiere che abbracciano tutto un popolo e, insieme, la tenacia di chi, dopo Caporetto, non ne volle sapere di abbandonare la battaglia. Perché ne andava del futuro dei loro figli e dei loro pronipoti.
Che poi, è ovvio, siamo proprio noi. Ecco, noi abbiamo contratto verso quegli eroi un debito di gratitudine che non possiamo estinguere. Con il loro – spesso estremo – sacrificio, infatti, i soldati del ’15-18 ci hanno fatto il dono più grande: il dono della loro vita. Sono morti affinché noi potessimo vivere liberi e padroni del nostro destino. Estinguere quel debito, riscattare quell’eredità è pertanto impossibile. Cerchiamo perlomeno di esserne degni.
Valerio Benedetti
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